lunedì 24 maggio 2010

Il Talento, ce n'è per tutti

Spesso in azienda si sente parlare di persone ad "alto potenziale", high flyers, top performers etc etc..
Aldilà del linguaggio utilizzato quando si parla di talenti si fa quasi sempre riferimento ad un gruppo ristretto di persone che dovrebbero contribuire al successo dell'azienda più di altre, perchè "dotate" di capacità e potenzialità eccellenti, che portano sempre, o quasi sempre, a delle performance superiori...e per questo motivo tali gruppi ricevono numerose attenzioni (tanto per cominciare si comincia a parlare di talent retemption, ma poi vengono coccolati con specifici corsi di formazione, percorsi di carriera ad-hoc, fuori busta etc.).

A volte però ci sono delle buone probabilità che non si possa procedere in questo senso, e che anzi si ottenga un effetto boomerang.
Perchè? Le ragioni sono molte:
  1. la performance organizzativa non è sempre data dalla somma delle performance individuali e spesso non c'è sufficiente analisi e controllo degli elementi che hanno contribuito a migliorare le performance stesse;
  2. un sistema di valutazione delle performance eccessivamente sbilanciato sui talenti alimenta spesso la creazione di una elite chiusa, con conseguenti problemi interni a livello di clima, integrazione e organizzazione.
  3. può accadere che i "low performers" (tutti gli altri), proprio perchè ricevono meno stimoli e riconoscimenti riducano la loro produttività e generino una maggiore conflittualità interna.
In sostanza credo che qualsiasi sistema di talent redemption abbia in se un peccato originario, che è quello di mettere le performance al centro di qualsiasi discussione in merito, piuttosto che la persona ed il suo potenziale.

Mettere le persone al centro delle organizzazioni non vuol dire utilizzare la politica del bastone e della carota rispetto a performance prestabilite a tavolino, ma significa ad esempio iniziare ad utilizzare dei sistemi di valutazione del potenziale che solo poche aziende mettono in pratica.
Questa omissione viene giustificata spesso dalla mancanza di fondi, ma a ben vedere la vera ragione è frequentemente una cultura organizzativa poco sensibile a questi temi, per ragioni che nulla hanno a che fare con una sana crescita non solo delle persone, ma dello stesso business, soprattutto in un contesto come quello attuale.

Quindi coltivare il talento delle persone è una cosa, cercarlo è un altra.
Se pensiamo poi che, secondo quel che dice anche molta letteratura, il talento non risiederebbe nei "geni" ma in ogni individuo, ed in particolare nelle attività che svolgiamo con minor sforzo o con più passione, allora la questione è prettamente culturale, con ricadute sul piano organizzativo, e a cascata su quello economico, anche generale.

Sono del parere che ognuno di noi ha almeno un potenziale talento che sfrutta solo in minima parte, per paura, pigrizia, o a causa di ambienti a lui sfavorevoli.

Cosa dovrebbero fare le aziende allora, oltre a implementare dei sistemi di valutazione del potenziale? Sicuramente agevolare la mobilità interna, e il confronto cross-funzionale.
In fondo la mobilità del lavoro in Italia (sia dentro che fuori l'azienda) è lenta come il nostro Pil.

Ma gli Hr manager dovrebbero spesso anche astenersi da politiche di employer branding [1] soprattutto se queste non sono sostenute dalla prova dei fatti, ovvero da un equilibrata gestione sia degli high che dei low performers, e dunque da una gestione globale del benessere organizzativo nel suo insieme.
La coerenza è daltronde è una virtù che vale sia per le persone che per le organizzazioni.



[1] Quando si parla di employer branding, si fa riferimento a quel nucleo di attività indirizzate alla creazione di un’immagine aziendale coerente con l’identità dell’azienda stessa intesa come luogo di lavoro, in maniera tale da attrarre e fidelizzare le risorse di talento



Riferimenti bibliografici :
  • Amendola, 2004 (2004) “Employer branding: sviluppare un’efficace strategia di marketing per attrarre talenti” n.2 giugno, 2004, Direzione del Personale, Miscellanea
  • Jaoui H., (2000) La creatività: istruzioni per l’uso, Franco Angeli, Milano

domenica 9 maggio 2010

Il coaching

Secondo la Federazione italiana coach il coaching è un rapporto di partnership che si stabilisce tra coach e cliente con lo scopo di aiutare quest’ultimo ad ottenere risultati ottimali in ambito sia lavorativo che personale. Grazie all’attività svolta dal coach, i clienti sono in grado di apprendere ed elaborare le tecniche e le strategie di azione che permetteranno loro di migliorare sia le performance che la qualità della propria vita.

Aggiungo io che ciò è possibile grazie ad un supporto metodologico rigoroso, fondato su “domande potenti”, “riformulazioni costruttive” e “feedback motivanti”, che prendono spunto dall’ascolto attivo del cliente e da un generale clima di fiducia e di rispetto reciproco con il coachee.

Attraverso questi strumenti riusciamo spontaneamente a mettere a fuoco i nostri obiettivi, a organizzare il nostro tempo in funzione di uno stato desiderato, a individuare risorse e strategie necessarie per raggiungere obiettivi specifici, ma soprattutto impariamo a capire, ad ascoltare e a individuare dentro di noi inconsapevoli potenzialità, ancora inespresse, ponendo le basi per un ponte nel futuro.

L’aspetto meraviglioso del coaching è che tutto questo avviene non grazie al punto di vista esterno del coach, ma attraverso un percorso spontaneo di sviluppo interiore che ha effetto già dalle prime sedute. E’ come se sviluppassimo una sorta di terzo occhio che ci osserva e ci aiuta a prendere consapevolezza: questo terzo occhio è il nostro, ed è quello della consapevolezza interiore!

giovedì 6 maggio 2010

Blog - Anno Zero - post I°

Forse avevo semplicemente bisogno di uno sfogatoio..forse mi sono lasciato condizionare dal fatto che "si dice in giro" che "tutti" ormai hanno un blog, forse...appunto.

A cosa serve questo blog?

In generale questo blog serve per riflettere, per confrontarmi prima di tutto con me stesso, ma poi anche con gli altri, per convogliare un pò di energie residue in un canale comunicativo che potenzialmente raggiungerà persone in regioni remote della nostra penisola, difficilmente altri continenti....

Su quest'ultimo punto vorrei citare Guzzanti, che diceva "Ma se io ho questo nuovo media, ho la possibilità cioè di veicolare informazioni in un microsecondo, poniamo a un aborigeno dalla parte opposta del pianeta....il problema è: abboriggeno, ma io e te... che cazzo se dovemo di'?

Scusate la caduta di stile, eppure, tornando seri, anche quando pensiamo di essere soli, quando ci sembra di fare un passo in avanti ma di farne due indietro, beh, sono convinto che c'è qualcuno in qualche parte di universo che ci può capire, qualcuno che ci può dare una mano, anche una semplice voce, una testimonianza, una presenza anche impercettibile con cui comunicare.

Sono convinto dell'importanza del miglioramento continuo, del cambiamento, del confronto con l'altro, ma credo fermamente soprattutto che ognuno di noi porti dentro di se un pezzo di verità, ed è per questo che credo che ognuno debba cercare la propria strada, la propria realizzazione.

Il coaching in questo è un'arte magnifica, non suggerisce una soluzione, ma aiuta le persone a cercare la propria.

Come insegna la mia grande maestra, Giovanna Giuffredi, "la vita che vuoi è la sola che avrai".

Se riusciamo a capire cosa vogliamo veramente ci basta fare un passo dietro l'altro per arrivare a destinazione.
A presto!
Marco Di Lullo